mercoledì 21 dicembre 2011

come procede

Mi mantengo su un rate Kbps contenuto per non intasare la rete. Ancora non mi affido alla fibra ottica perché voglio mantenere il pieno controllo sulla trasmissione dei dati a pacchetto. Dal punto di vista elettrico, faccio la giusta (per me) resistenza. 

lunedì 31 ottobre 2011

eskimo

ho provato 
a indossare la tua pelle, ma è corta 
di maniche e non ho il permesso 
dell'inverno per sentire questo 
freddo se ti credo il meglio 
che abbia mai vissuto, basta
poco per fare bassa 
ogni livella. 


giovedì 13 ottobre 2011

il trogolo


Leggo su Metro di Milano, stamattina, una lettera di un lettore: 

Cari Fabiano e Giancarlo, ho due figlie e vi posso assicurare che l'atto del loro concepimento è quanto di più benevolo la natura possa aver concesso agli uomini (ma voi non potete capire). Non è senz'altro stata benevola con voi gay in quanto vi ha instillato nel cervello i desideri assurdi che violano le sue stesse leggi più elementari.

Come possiamo pretendere che la nostra società sia civile, se è popolata di persone che, appena si accenna a una qualche modalità di adozione per le coppie omosessuali, salta così sul trogolo della giustificazione in base alle leggi di natura? Parlo di trogolo, perché questo genere di argomentazione è qualcosa cui tutti i porci (mentali) attingono appena possibile.
E ancora, altra lettera: 

Nel diritto, oltre che nel buon senso, vige un principio: ognuno può esercitare un diritto fintanto che non leda quello altrui. (...) Pertanto, per me, nulla in contrario se a una coppia di omosessuali vengono concessi diritti legali e patrimoniali di una coppia tradizionale, ma non ammetto che gli venga concesso un bambino (almeno finché non raggiunga l'età del libero arbitrio) in quanto anche lui ha il diritto ad avere un padre e una madre come tutti. Non mi si venga a dire che si conosce una coppia gay più affettuosa di una di divorziati, perché qui si parla di principi generali e non di casi soggettivi. 

Non sembra esserci uscita dall'utilizzare sempre le stesse argomentazioni. Ma il diritto ad avere un padre e una madre come tutti, non è disatteso già quando manchi una delle due figure? E non si tratta di un generale diritto alla genitorialità? Perché se parliamo di principi generali, è negata la possibilità che una coppia di omosessuali generi più affetto di una di divorziati? Piuttosto si difende la famiglia distrutta, pur di non riconoscere la dignità dell'affetto a famiglie altre

Complimenti, porci. E buon appetito. 




martedì 30 agosto 2011

casi umani, episodio 06

Questo caso umano può essere considerato un'evoluzione pokemon del Chatter. Si tratta de L'Inconcludente.   A differenza del Chatter, questi acquisisce la capacità di non abbandonare la chat privata quando capisce che non porterà a compimento la propria mission, e di tenervi lì per mezzore facendovi presagire che la cosa finirà nel migliore dei modi nei mondi possibili. In particolare, il discorso è segnato da ripetuti silenzi, il più delle volte mancate risposte a vostri quesiti che hanno come obiettivo quello di rimorchiarlo, interrotti improvvisamente nel momento in cui state per assumere il ruolo di Chatter per troncare la discussione; questo porta a continuare fin quando non avrete esaurito le strategie per quagliare. A quel punto, il vostro lampante calo di interesse lo porterà a considerarvi degni di un bell'abbandono con conseguente sensazione che la colpa sia vostra. Unico rimedio per evitare di incontrare L'Inconcludente è tenere aperte diverse finestre di dialogo: se veramente interessato, la sua lampeggerà e voi potrete dedicarvi a lui, ma non regalategli niente della vostra attenzione e del vostro tempo, di cui si ciba e che sputa quando è sazio. 

mercoledì 1 giugno 2011

play:rebel

♪ Turin Brakes, Red Moon
♪ Ting Tings, That's Not My Name
♪ Noir Desir, A l'envers a l'endroit
♪ The Cranberries, Disappointment
♪ The Strokes, Reptilia
♪ The Killers, Uncle Jhonny
♪ Idlewild, I Want A Warning
♪ Interpol, Not Even Jail


giovedì 19 maggio 2011

play:wind/wound

♫ Egokid, Arbasino ♪
«Ci sfioravamo i corpi per far cadere il tiranno, come voleva Arbasino.»


♫ Enrico Ruggeri, Polvere ♪

«Aria un po' viziata, questa finestra andrebbe spalancata.»


♫ Nik Kershaw, The Riddle

«I only know what to discuss of anything but light.»


♫ Ministri, Tempi bui
«E mi cambierò nome, ora che i nomi non valgono niente.»

♫ Roisin Murphy, Overpowered ♪
«A chemical reason, if reason's your game.»

♫ Grizzly Bear, Fine for Now ♪
«If we're all faltering, how'd I help with that? If it's all or nothing then let me go.»

♫ Manic Street Preachers, If You Tolerate This ♪
«Or is it maybe shame at being so young and being so vain.»

♫ Bran Van 3000, Astounded ♪
«It's early in our language of how the human feels.»

lunedì 9 maggio 2011

play:silence

♫♪ Mel C, Goin' Down ♪♪
♪♫ Baustelle, Colombo ♫♪
♪♫ Tiromancino, Muovo le ali di nuovo ♪♫
♪♪ Elisa, A Feast For Me ♫♪


martedì 3 maggio 2011

lose/lose

Pezzo dopo pezzo, lui continua la rimozione. Mi rimuove dai contatti qui, lì, da quell'altra parte, blocca, elimina. Come se fosse una punizione. Come se avessi sbagliato qualcosa e meritassi questa punizione: la mia pena è perdere ogni modo di contattarlo. Infantile, lo è. Crudele, come sa essere crudele un bambino. Tutto troppo simile alla cattiva storia, quella degli scarafaggi e del silenzio, della violenza. Mi chiedo perché succeda sempre così. Perché coloro che intendono chiudere con me non sappiano far altro che togliermi la parola. Che poi è sfuggire al confronto. Come chi sa di avere torto. Come chi sa che io ho ragione?
L'unico esito è la scomparsa. Quella volta, abbandonai io il campo. Questa volta, è l'altro che si allontana, recide di sua volontà i suoi legami con me, o perlomeno la possibilità di me
Però, alla fine, si perde. Si perde tutti. 

sabato 30 aprile 2011

davvero davvero

Era la fine dell'inverno, per tutti la primavera inizia ai primi di marzo, anche quando la pioggia e il freddo ci legano ai mesi del freddo profondo. Ma c'era un po' di primavera, comunque, come nell'aria. Non si capisce, te la senti, non si sa, succede. 
Quando lo incontrai, non faceva molto freddo, nelle rispettive giacche. Si stava bene, protetti dalle facciate dei palazzi. Andammo a bere una birra, e con una intendo una, ché la condividemmo, in un piccolo posto, molto intimo. Noi due al tavolo, qualcun altro al bancone, i genius loci. Parlammo. Quell'incontro arrivava dopo un po' di chiacchiere la sera precedente, in chat. Mi contattò, gli risposi, ci scambiammo un contatto più fluido, finimmo a vederci, una webcam e due stanze si uniscono in un unico locale. Non si capisce, non si sa, succede. Ci si trova, si parla, ride, si va, ci si incontra. 
E si era seduti a un piccolo tavolo, un bicchiere di birra e quattro mani che si sfioravano, i volti che si avvicinavano. Ci baciammo poco dopo. Iniziò così, una birra in due. Ci spostammo verso il vino, e bevemmo vino, senza smettere di baciarci, di toccarci, di mapparci. Parlare. La bocca può fare molte cose, contemporaneamente. Assiduamente. 
Avevo paura, era troppo bello e non sentivo nessuna forzatura, sembrava tutto così naturale. Succede. 
Avevo paura anche quando ci trovammo a casa sua, ma bastarono pochi minuti perché mi rendessi conto che non c'era niente di più naturale, di più tranquillo e di più, forse, giusto. Arrivò il suo coinquilino e non fu nulla di inopportuno. Era solo vita, quotidiana e semplice. Poi la porta si chiuse, o si spense solo la luce, questo non lo ricordo, ricordo solo gli abbracci. E «resta a dormire», un invito. Non era ancora il momento, volevo che le cose andassero diversamente, era successo troppe volte, il giorno dopo se ne erano sempre andati. Io me ne sarei andato? Tornai a casa, tardi. 
Un paio di giorni dopo, successe di nuovo. Uscimmo e poi ci ritrovammo sul suo letto. «Resta a dormire», di nuovo. Quanto mi costò declinare, ma c'era qualcosa che non mi permetteva di accettare. Per questo il giorno dopo dissi ai miei genitori dove ero stato quelle sere, il perché di quelle ore piccole. Finì lì, non ci fu niente di speciale. La sera stessa uscimmo con i suoi amici, divenni il suo ragazzo; non sentii nessuna forzatura, nessun "è troppo presto, è troppo presto". Non si capisce, ma succede. Stavamo bene, punto. 
Quella notte dormii da lui, per la prima volta. Ci spogliammo e cademmo abbracciati. Io non avevo mai dormito... io non ero mai riuscito a dormire tutta la notte abbracciato a qualcuno, ho sempre difeso il mio spazio, il mio calore, me stesso, forse solo la mia comodità. Ci svegliammo così, abbracciati, ed era domenica. Poi ci fu un'altra settimana, il tempo insieme. Le mutande di ricambio, la cena. Stavamo bene, punto. Non si sa come, ma succede. Questo basta.
Tornava piano il sole, quei giorni. Si avvicinava l'equinozio. O il solstizio, non ho mai capito, so solo che succede ogni tanto, ogni tot. Tornava il sabato, lo passammo insieme, il pomeriggio. «Ti amo», disse, «Ti amo veramente», ripeté guardandomi negli occhi.
I piani di un'uscita svanirono sotto la grandine improvvisa. Malumore, capita. A lui piace il sole, questa è una cosa che ho saputo, che conosco. Rimanemmo a casa a farci compagnia, bastavano le nostre reciproche presenze. A lui questo piace, basta. Anche a me, ma non sono riuscito a farglielo sapere. Capire? 
Forse volevo farlo uscire, portarlo fuori, farlo più felice, fargli conoscere le cose di me. Non ne aveva bisogno quanto me. Ma ne avevo bisogno per lui, non per me. Questo non successe.  

- Buio - 

«Forse è meglio se non ci vediamo per qualche giorno».
«Non mi perdi, deve passarmi da solo». 
Provai a cercarlo, si negò per due settimane, a parte un breve incontro in cui pensai di perderlo. 
«Non mi perdi, deve solo passarmi». 
Rispettai le sue richieste, mi pesava ma rimasi ad attendere, dimostrandogli la mia presenza. Non mi avrebbe perso, non mi sarei perso. 
Provai a cercarlo, si negò ancora. Le nostre presenze erano chiare, eravamo nello stesso luogo nello stesso momento, connessi solo da un debole segnale di rete. Ma non lo cercai più, lui non cercò mai me. 
Gli scrissi le ultime parole, perché volevo farlo. Forse perché lo vidi dove ci eravamo incontrati. Prima della birra. Prima della webcam.
Gli scrissi le ultime parole, perché non ne avevo altre. Erano domande. 

- Buio - 

Passarono settimane, nessuna risposta. E lo vedevo in giro per la rete. E mi vedeva. Mi vedeva? 

- Buio -  

Mi misi a riascoltare quella canzone, Talk To Me, adoro quella canzone. Me la inviò, tre settimane dopo le mie ultime parole. Non capii, non trovai nessun senso. Pensai al titolo. Pensai volesse che gli parlassi. Pensai al testo, perché non mi parli? Mi chiesi cosa volesse dire. Che cosa volesse. Voleva che gli parlassi? Voleva parlarmi? Qualunque cosa volesse dire, gli rimandai il suo stesso messaggio: erano esattamente le domande o i desideri che io rivolgevo a lui, che avevo rivolto a lui in quel tempo.  
Pensai che forse era pronto, di nuovo. 
Provai a chiamarlo. Suonava libero. 

- Buio - 

Non rispose. 

- Buio - 

Non richiamò.

- Buio - 

Non si capisce. 
Non ho più parole per provare a capire. Quanto spazio c'è per l'orgoglio? 
Pensavo fosse pronto. Pensavo di essere pronto. Ero pronto. 
Non si capisce.
Non si capisce.

- Buio - 


«Talk to me sticazzi. Ma io, secondo te, cos'altro dovrei dirti? Se vuoi parlare, di modi ne hai.
Io problemi non ne ho. Sei tu quello che non risponde. E ti ho già scritto troppo.» Gli scrissi. 
Non rispose. 
Mi tolse dal suo mondo virtuale. L'unica cosa che riuscì a fare, rimuovi dagli amici
Che smacco, davvero.
Davvero davvero.

- Fine - 

giovedì 21 aprile 2011

venerdì 8 aprile 2011

bisogna sempre per forza parlare d'amore?

Ci sono libri che non bisogna leggere, perché non tutti i libri sono fatti per essere letti, semmai possono essere dei letti. Alcuni libri nascono per essere consultati, sono delle enciclopedie da tirare fuori dalla libreria a bocconi, mangiucchiando le voci che più ci servono.  Sono libri utili, con un valore d’uso. In una visione archeologica, che vanta fra i suoi maggiori esponenti un certo Michel Foucault, solo per dirne uno, il valore dell’accumulazione della storia e della ricostruzione dei percorsi delle cose e delle persone è fondamentale, è il surplus di “chi ne sa”. Bene, tutto questo va molto bene. Il rischio è quello di andare troppo a fondo e svelare innumerevoli altarini arcani, liberare il mondo dal velo schopenaueriano e via dicendo; ma è un rischio che personalmente mi assumo con quieta e placida noncuranza.  Chiara la premessa, pongo una domandina facile facile, rubata ai Bluvertigo: «Bisogna sempre per forza parlare d’amore?». Perché qui si parla di ricostruire l’amore, ma non quel romanticismo spicciolo da bacio perugina, bensì un romanticismo diverso, quello fatto di figure e azioni e una intensissima vita mentale che il Roland Barthes dei Frammenti di un discorso amoroso (1977) ha sapientemente ricostruito.
Roland è un archeologo della vita. Scava a mani nude e spennella via la polvere e le incrostazioni, recupera i reperti nascosti sotto gli strati, li sottopone a datazione al carbonio-14 e li scopre sempiterni, e ne fa bella mostra, un’installazione permanente di scatti, di figure, appunto, svelandoci da buon strutturalista la struttura delle relazioni fra chi ama e chi è amato.
Consultiamo una voce a caso, davvero a caso, e troviamo «Così non può continuare». Per come è organizzato il tutto, si parte con la definizione tecnica della figura «Insopportabile: la coscienza di un accumulo delle sofferenze amorose trova sfogo con questa frase: “Così non può continuare”». E poi via di ricostruzione meticolosa della struttura di quest’azione, nella letteratura e nella vita quotidiana (come se, per noi, le due cose fossero sempre distinte). In tutta la sua banalità, sono due attimi di luce su verità prese per buone e agite come nulla fosse. Da verità a Verità, questo è il lavoro di Barthes: rendere eterno ed etereo lo sporco della vita quotidiana. Fare dello sporco un concetto iperuranico, platonico. Arrogarsi, forse, la capacità di assolutizzare e fare impalpabile il fisico. Ricchezza e limite della sua avventura fra i tempi del romantico, il risultato di questa operazione è squisitamente detestabile, perché al termine di ogni voce, o dell’intera lettura, non si può fare a meno che pensare di essere innamorati di tutti, di essere sempre e costantemente in balia di un folgorante innamoramento. Ecco perché non è un libro che va letto, in particolare non lo legga chi ha anche solo un misero minuscolo infinitesimale dubbio sulla possibilità di esserci cascato. Ogni frammento è pietra, saggiamente estorta dagli scavi della storia della letteratura, del pensiero, ma lasciata ruvida, grezza, con tutto il suo potenziale di deflagrazione.
Il romanticismo che ne esce non è un romanticismo per sé, in sé, immanente, ma un romanticismo performativo, fatto di situazioni definite romantiche da chi le costruisce e le struttura. Un romanticismo materico, quotidiano, attuale.
«Bisogna sempre per forza parlare d’amore», allora? Rispondete consultando «Io-ti-amo». Che figura!

lunedì 28 marzo 2011

a forma di naso

«In un incerto compromesso fra la mia anima ed il suo riflesso.»


«Amami soltanto se tu sai il mio nome, amami se riconoscerai il mio odore.»


not my name

Tutto questo non ha senso. È stato il mio buongiorno, la prima frase che è uscita dalla mia bocca, rivolta al pubblico muto di una stanza ancora avvolta nel sonno. L'urlo dimesso, lo sbadiglio primordiale della resurrezione quotidiana: supino, gli occhi sbarrati nel bianco del soffitto, gli arti inermi e senza forza, di me solo una sagoma scavata in un materasso. E troppo caldo, fuori si annuvola; troppo caldo, durante la notte mi sono liberato delle coperture. Tutto questo non ha senso. Parole di paura, cifre di una combinazione che aprirà una stanza di cui ignori l'arredamento, il contenuto. I pensieri sono la radice del nervosismo; le sinapsi, i nervi sollecitati dalle immagini: quanto manca, perché tutto finisca? Quanto manca? Quanto manca, perché tutto cominci? Come se ci fosse un tempo, una durata da far scorrere. L'orologio del cellulare si è automaticamente portato avanti di un'ora, ho perso il piacere di perdere la cognizione del tempo: quel mondo silenzioso in quell'ora che neghiamo. Tutto questo non ha senso. Le parole non si dicono a caso, le parole. Sono nervoso. Sto per stancarmi, sarebbe facile stancarmi, ma io non mi arrendo, non sono io quello che molla la presa, che lascia che le cose seguano un clinamen di disfatte senza significato, senza senso. Tutto questo non ha senso. Un mantra, come una rivelazione; ma dopo, cosa viene? Le parole non si dicono a caso. C'è solo da pensarci. Solo. Solo. Non ne faccio un problema, il problema è che c'è stato un problema. La proiezione nel futuro comporta che questo risulti un insignificante dosso. Lasciami solo, lasciati solo. Come può servire? Ne faccio un problema o solo una domanda? Dire, ho detto. Tutto questo non ha senso. Cosa c'è che non va? Qual è il problema? L'italiano a volte è misero linguaggio, la parola è quella, quando non c'è progresso perché manca una soluzione. Poi c'è il pretesto, ma non c'è pretesto senza motivo; o movente. Perché tutto questo non ha senso, ancora. E dopo, cosa c'è? 

mercoledì 23 marzo 2011

play:wednesday

♫ Turin Brakes, Red Moon ♫
The Shin, Split Needles ♫
♫ The Cranberries, Ridicolous Thoughts
Editors, I Want A Forest ♫
Alex Gardner, I'm Not Mad
Negramaro feat. Dolores O'Riordan, Senza fiato ♫


odio i mercoledì 

martedì 15 marzo 2011

play:tuesday

♫ Nick Cave feat. Enya, (Don't Fear) The Reaper ♪
Subsonica, L'ultima risposta
♫ Estopa, Tus ojitos rojos
♫ Ludovico Einaudi, Bella notte ♪
♫ Turin Brakes, Jack In A Box ♪

► play : tuesday

lunedì 14 marzo 2011

play:monday

♫ Kings of Leon - Closer
♫ Joanna Newsom - Good Intentions Paving Company
♫ The National - Conversation 16
♫ Idlewild - If It Takes You Home
♫ Erik Satie - Gnossienne No. 1


► play : monday

domenica 6 marzo 2011

non indurre tentazioni, deducile dal male

No, è che sono appena tornato dal matrimonio di un amico di famiglia. Il figlio degli amici di famiglia, in pratica noi eravamo loro dirimpettai di pianerottolo e quindi nel tempo dell'infanzia loro furono seconda famiglia per me. Dicevamo, questo matrimonio. Vorrei fissare su "carta" alcune osservazioni. 
Primo: a quanto pare è l'anno dei viola e dei lilla, per tutti. Secondo: questa moda di scegliere per la cerimonia posti sperduti a cinquanta kilometri da casa, deve finire. (Soprattutto se è un luogo dove è impossibile essere arrivati per caso e "Oh, guarda, che bella chiesa, ci sposiamo qui?") Terzo: questa cosa di scegliere per il momento del cibo posti sperduti nella campagna più fredda, deve finire. ("Ma è un loft" e chi se ne frega?) Quarto: sembra essere ormai molto chic (a radical?) andare a un matrimonio vestiti come se si stesse andando in un qualsiasi altro posto, camicie fuori e stropicciate e felpe con il cappuccio e jeans. (Mi sembra normale mantenere un certo dress-code, non costa nulla.) Quinto: questa cosa di costringere le persone a ballare è peggio di quella volta in cui Marco Carta vinse Sanremo. Potrei andare avanti, ma ho solo voglia di attivare la modalità reset e tornare con la memoria a prima di tutto questo. Sacrifico il ricordo di un'intera giornata per un po' di pace interiore. Sembra poco?  

mercoledì 2 marzo 2011

doors open on the right

Lo so, manco da molto. O almeno a me sembra molto. Credo di mancare da quando avevo una vita sociale, da quando il lavoro (bellissimo, ganzissimo, adorabile, realizzantissimo e tutto quanto quello che volete) ha smesso di adoperare una scansione temporale tradizionale e "sai quando arrivi, non sai quando vai via" o una cosa del genere; da quando le cose da seguire sì sono moltiplicate per quattro - o almeno tre virgola cinque; da quando devi inventarti quotidianamente un valore. Bene. È da quel momento che vedo la mia vita sociale lasciare il posto a una mesta esistenza bipolare: casa lavoro lavoro casa. Tra i due estremi non c'è alcuna gamma oppure c'è una varietà di stati della medesima stanchezza. Non è solo una stanchezza fisica, è soprattutto in modo di non avere le energie per. Per uscire nelle serate lunedì-venerdì, per tentare di (ri)stabilire dei contatti, prendere treni che pensavi di aver perso, frequentare un rimedio a quella sensazione di abbandono e solitudine che poi sì ciba del suo circolo vizioso: ti senti troppo singolo, vorresti uscire con qualcuno che te lo propone, finisci per (dover) declinare o procrastinare l'invito, torni a casa nella stanchezza e in quel momento senti il bisogno di non stare solo, quindi ti senti solo. E ricomincia. È che le cose ti assorbono, e ti ritrovi a scrivere un post del tuo blog mentre torni a casa, l'ennesima volta, verso la solitudine di un qualche Yellowstone e dei suoi Yoghi e falegnami. Sperando che ci sia qualcuno che come te ha solo bisogno di sentirsi abbracciato.

sabato 19 febbraio 2011

bumper in

Si sa, da dicembre ho un lavoro. È un lavoro a tutti gli effetti. Sono solo poco meno di tre mesi, eppure mi sembra di essere lì da almeno un anno: questione di intensità. Sono ancora iscritto a diverse newsletter di annunci di lavoro, in particolare ricevo le opportunità legate al mio titolo di studio (poco prima dell'incarico avevo scoperto una risorsa mirata). Non mi disiscrivo perché sono pigro e poi e poi... sai mai. C'è da premettere che il mio lavoro attuale non ha nulla a che fare con la parte formale del mio curriculum vitae (la formazione accademica, la formazione complementare e via dicendo), sui cui ho sempre puntato per trovare la mia collocazione; ha a che vedere con le competenze trasversali e con tutto quello che sono a latere: lo scrittore, il blogger, il parolaio, il nerd, il malato di televisione, lo spettatore in streaming, l'orso che è troppo pigro per serbare rancore e odiare qualcuno. Insomma, sono lì perché ho (dicono) una certa cultura e ho un'attitudine al lavoro di un certo tipo: cose applicabili a qualsiasi attività. E ricevo, andando avanti nelle opere e nei giorni, più valutazioni positive, più considerazioni positive, da entrambe le parti, nel giro di un mese il mio compenso è salito con tanto di scuse per la pochezza e promesse di aumenti ulteriori; la difficile persone cui ho il compito di referire riguardo ai suoi prodotti (cliente, committente, come volete) tesse le mie lodi a piè sospinto, appena ne ha l'occasione (mi riservo il beneficio del dubbio sulla paraculabilità del tutto, ma intanto me le prendo, 'ste lodi, no?). Mi si dice: «Fosse per me, tu potresti anche rimanere lì per dieci anni. E poi, un giorno, io vorrei che ci fossi anche tu nei titoli di coda.» Scioccante, non tanto la seconda parte, quanto la prima, perché vuol dire «pensare al futuro, almeno a un futuro possibile.» Questo futuro che per noi, generazione senza vento, è qualcosa di spaventoso nel campo semantico dell'ignoranza e della sconoscenza. Fa paura pensare a me lì per un tempo che appare indeterminato perché indeterminabile. Ma il problema sorgerà (o è già sorto?) quando, forte delle mie caratteristiche personali e competenze trasversali e oblique, il confronto sarà fra un lavoro che faccio e mi piace molto e un lavoro che potrei voler fare e che so che mi piacerebbe. Come essere un editor e un sociologo? Fra qualche ora vedremo di provarci fondando un'associazione. Bumper out.  

mercoledì 9 febbraio 2011

sound check

Il primo post dallo smartphone. Certo che è tutta un'altra vita, tutto in altro modo di vivere il rapporto fra tempo e azione. Provo a sposare la nuova prospettiva, occasionalmente.
Già mi chiedo, che effetto ha sulla memoria? Qual è il prezzo della simultaneità? La sincronicità fra pensiero, annotazione mentale e creazione, messa su foglio (o schermo, insomma), che cosa comporta per l'atto creativo? Quand'è che sì può fare a meno della sedimentazione del guizzo a favore dell'istantaneità dell'ispirazione?
Ora me la studio. Le risposte nelle prossime puntate.

mercoledì 26 gennaio 2011

un po' la comodità

Ha completamente cannato le aspettative, Cristina Donà. Forse è stato troppo generoso farsi delle aspettative, però di solito uno se le fa, le aspettative, sui suoi artisti preferiti. Soprattutto quando si ha a che fare con quei musicisti che non sfornano un album all'anno, ma si fanno desiderare, aspettare. Il nuovo Torno a casa a piedi ha di buono solo il titolo, ossia l'idea. Poi si perde nel susseguirsi delle solite canzoni, nello sciorinarsi inevitabile di una ricerca poetica che non ha niente a che vedere con la poesia, se non forse - è questo un dubbio che assale improvviso come ogni assalto ben fatto - l'uso di accostamenti un po' inconsueti, il richiamo di immagini un po' troppo imperfette per esserlo in maniera spontanea. Insomma questa volta bisogna essere nudi e crudi e puri: è un disco inutile, noioso, solito, che non dà alcun apporto alla vita. Forse la Donà è un po' invecchiata e vive da troppo tempo lontano dalla città, nell'eremo indiscusso della pace della natura, che le suggerisci giri di suoni calmi da casolare e caminetto. Ma l'intento di tornare alla città, come ha detto nell'incontro con i fan alla presentazione di ieri, non ha nessuna concretizzazione, a meno che tornare non significhi continuare a fuggire dai luoghi dove tornare a casa a piedi è veramente una rivoluzione. È un disco un po' comodo. E noi, in città, odiamo la comodità.

Cristina Donà, Torno a casa a piedi, 2011.

lunedì 24 gennaio 2011

che forma hanno le parole nel vuoto?

Io non so se è leccaculaggine, ma mi ritrovo spesso a sentirmi rispondere, alla domanda «Hai incontrato qualcuno di interessante?» (sottinteso: «dopo che io ti ho bellamente scaricato senza dirtelo»), un bel «Sì, ma non come te». Questo fa molto bene alla mia autostima, indubbiamente. Eppure mi fa pensare, tanto da pensare di scriverci sopra un post. Tra l'altro un post in cui non so affatto cosa scrivere. Forse volevo solo semplicemente registrare minuziosamente un fatto, così, carino. Poi penso che quella persona, se è sincera, non dev'essere contenta di sentirmi, sapendo che non ho voluto ricambiare il suo interesse destato dall'interesse che ho in passato destato io stesso. Sogno o son destato? D'altra parte tutto questo rischia di risultare molto vanesio se non addirittura vanitoso, cosa che io mi scopro ogni giorno un po' di più così, vanitoso; o forse solo consapevole, anche se suona scemo se mi riferisco al mio oggi sono bellissimo che ogni tanto mi dico allo specchio. Ma la soddisfazione personale non era un valore da perseguire? O era solo la realizzazione? A me realizza molto, a livello personale, creare un post che parla, esattamente, del nulla

giovedì 13 gennaio 2011

faunomenologia (fenomenologia del fauno)

Ieri mattina ho scelto di camminare, ero troppo in anticipo già alla fermata prima della mia, perché non scendere, passare a cambiare un acquisto e proseguire a piedi nel frizzante e timido soleggiare delle 9 di mattina a Milano? Corso Buenos Aires, da Lima a Loreto, un mercoledì mattina - io odio i mercoledì, ma non decido io che giorno è ogni giorno. Non ancora, almeno. Gente che riempie le strade, negozi ancora vuoti, ma già aperti, bar che sfornano e tacchetti e carri armati sul cemento, scarico di fumi (marmitte o sigarette, non differisce). E camminare, gli auricolari on. Ieri sera, dopo una giornata estenuante, la musica ha accompagnato anche l'interminabile spazio dalla metrò a casa mia. E stamattina, la cosa si è ripetuta - la cosa degli auricolari, intendo. Quindi perché non proporre qualche bel pezzo di un'ipotetica Walking Playlist?

The XX -  Crystalised; (soprattutto nel passaggio dalla metropolitana alla superficie)
Nick Cave feat. Enya -  The Reaper (Don't Fear); (prima del caffé)
The Ting Tings - Shut Up And Let Me Go; (un buon passo)
Editors - Papillon; (se volete accelerare il passo)
Mini K Bros -  Delicatamente; (dopo il caffé)
The Shins -  Split Needles; (lasciarsi guidare da picchi di stridente purezza)

Seguiranno aggiornamenti.

lunedì 10 gennaio 2011

Valenzetti

Sono capitato su un sito di oroscopi che ti fa anche la numerologia. Io ero rimasto a quel giochetto che contavi le lettere in comune con il nome del tipo che ti piaceva e anche quelle sole, e poi sommavi il numero finché non arrivavi a una cifra tra 0 e 100 e quella era la percentuale di affinità. Cose da scuola elementare. Mi pare che la numerologia sia altro e allora perché non provare e vedere un po' cosa dice?



Questo il responso: il mio numero del destino è il 7, che vuol dire che il mio destino è quello di cercare e presumibilmente trovare le verità universali e perseguire la conoscenza interiore. Un saggio per sempre. Il 7 è anche il mio numero dell'apparenza, che indica come appaio agli altri, ossia un tipo intelligente, perspicace e introspettivo che ci tiene alla sua privacy e per questo appare introverso; indica inoltre la mia quintessenza che ha sempre a che fare con la ricerca della verità e in nome di questo percorso mi porta a prendere strade divergenti rispetto a quelle degli altri, le vie più battute non fanno per me; ma il 7 è anche la mia sfida del ciclo 37-46, anni in cui affronterò un qualche isolamento che mi porterà a confrontarmi con il mio essere introspettivo e a fare finalmente ordine fra realtà e fantasia. Inquietante, no? 
Un bel 9 è il mio numero dell'espressione, che descrive il mio principale anelito di vita, letteralmente imparare ad amare tutta l'umanità senza eccezioni. Un bomba d'amore universale a orologeria. La mia anima è invece rappresentata dal numero 11, che mi porta a evitare i conflitti e a essere messaggero di pace, come dire che ho l'anima del mediatore e del giudice di pace. 
Passando alle altre sfide: la prima sfida, affrontata nel periodo fino ai 28 anni (e quindi ci siamo, è l'ultimo anno!), mi ha visto fronteggiare un bel 2, ovvero il bilanciamento dei miei bisogni con quelli degli altri e la ricerca dell'armonia attraverso una gestione oculata dei conflitti. Tra i 29 e i 36, la seconda sfida sarà un bello 0: avrò piena libertà di scelta, in particolare sarà tutta mia la scelta di fronteggiare o meno le sfide dall'1 al 9; ma da grandi poteri derivano grandi responsabilità e se da un lato sono libero di vivere la mia vita attraverso le scelte che farò, dall'altro la libertà di non accogliere le sfide che mi si presenteranno davanti potrebbe avere delle conseguenze su un piano molto più alto. Perché io cerco la verità e sono messaggero di pace. Vi ho già detto che la terza sfida, anni 37-46, è il caro vecchio (vedi sopra). E l'ultima sfida, fino alla fine, sarà di nuovo il 2. Insomma, una vita adulta molto piena, ma ritirata. Bene, un eremita sarebbe più felice. 
Altri numeri mi dicono come si svilupperà il mio ciclo della realizzazione, suddiviso in 4 fasi. Nella prima fase, che termina fra qualche giorno con la fine dei miei 27 anni, il 4 ha guidato la costruzione delle fondamenta. Punto. La seconda fase, fino ai 36, dominata dal 6, mi vedrà impegnato nella costruzione di una qualche vita "familiare" e nell'apertura verso gli altri, tutto sommato in linea di utilità con la seconda sfida, quella della massima libertà: avrò carta bianca sulla mia vita, bello. Credo. Fino ai 44, la terza fase sarà quella dell'1, ossia dell'affermazione individuale, che si ritrova anche nella quarta fase, in cui il 4 della costruzione di casa, famiglia, carriera si protrarrà fino alla fine dei miei giorni. 
Questo il prospetto generale, della vita. Che sembra già realizzarsi da questo 2011: il mio numero dell'anno è infatti l'8, numero dell'affermazione in ogni campo. 
Spacchiamoli, numericamente, sti culi.

domenica 9 gennaio 2011

voce del verbo lavorare

Ci sto pensando.


Da un mese e mezzo ho trovato lavoro. L'ironia ha voluto che, dopo aver inviato le solite centinaia di curricula, questa opportunità mi si sia rivelata sotto forma di telefonata da parte di un amico che il mio curriculum, di certo, non ha mai ricevuto. 
E ironia ha voluto che sia tutt'altro rispetto alle mie velleità sociologiche. Sono un editor, o meglio un responsabile editoriale in una agenzia di doppiaggio. Mi occupo dei testi che verranno parlati dai doppiatori. Si tratta di un paio di reality in voice over e a breve di un documentario. Ricevo i testi tradotti dai traduttori, gli script in lingua originale e i video originali: controllo, sistemo, curo. È un lavoro di cura, di dettaglio, di compromesso fra la lingua parlata , la lingua tradotta qui, la lingua parlata qui, la storia raccontata  e le scelte editoriali qui. Sono il referente per il committente presso l'agenzia cui ha commissionato la lavorazione. 
Ho iniziato a fine novembre con le parole periodo di inserimento. Quindi mi aspettavo un periodo di prova non retribuito, una personale serie di fatiche di Ercole finalizzate al fantomatico vediamo se. Sono figlio del mio tempo, per me, per noi, prova significa lavoro a gratis, prendersi le responsabilità di una posizione riconosciuta senza avere il riconoscimento. Lo diamo per scontato. E ogni sera il genitore di turno che chiede: "Ma almeno ti pagano? Oh, fatti pagare, parlane con loro". Loro, già. E la paura generazionale di avanzare una qualche pretesa, dove la mettono i genitori? Non sono loro a rischiare un arrivederci, addio
Ma un mese dopo il mio inizio mi è arrivato un assegno, e al mio sbigottito "Non me l'aspettavo" è seguito un altrettanto inaspettato "Il lavoro si paga". 
Alla sportellista delle Poste dove ho versato l'assegno ho chiesto una fotocopia, perché "Sa, è il mio primo stipendio". E lei mi ha risposto: "Allora auguri!". 
E adesso, dopo un mese e mezzo, sono ancora lì e mi sono potuto permettere un cappotto in saldo con i miei soldi. E se ancora ci penso, mi commuovo, stupido.