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giovedì 22 novembre 2012

fra indice e anulare

La notizia del giorno a Milano è che gli automobilisti sono un popolo di repressi sessuali e che le mamme sono inacidite pre-suffragette. Questa della denuncia del maxi poster di Belen in mutande è una notizia che lancia l'allarme su vari aspetti dell'italianità media, quella fra anulare e indice. 

L'indice. Quello delle mamme (mogli), rivolto ai propri mariti ormai succubi e sudditi del voyeurismo da Studio Aperto. All'urlo di "Chi penserà ai bambini?" è evidente la difesa dell'incapacità di educare lo sguardo dei propri figli. E come diceva Shun di Andromeda, «la migliore difesa è l'attacco». Attaccare la moralità irrisoria del mondo della pubblicità e dello sfruttamento dell'immagine in un periodo così vicino alle sante festività invernali. Invocare la pedagogia da strada - letteralmente: il potenziale pedagogico e violento di un cartellone pubblicitario "subìto" dal passante. Tutto in nome di quello sfuggevole concetto di appropriatezza che è impossibile definire. Appropriato significa adatto, azzeccato, pertinente rispetto a determinate esigenze. Una signorina già svestita in altre occasioni, con indosso dell'intimo di marca, situata a un crocevia con la massima visibilità dev'essere apparsa una cosa appropriata agli occhi del committente della pubblicità incriminata. Alle mamme (mogli) che puntano l'indice, invece, è sembrato l'opposto, visto che ci si avvicina alle feste (sic...?). 

L'anulare. Gli automobilisti verrebbero distratti dalla visione. Assistiamo quindi alla manifestazione di un problema del tutto maschile e eterosessuale? Immagino che ci si riferisca al fatto che l'immortalata e mutandata Belen sia considerata l'oggetto del desiderio fantastico di molti ometti sposati alle loro mogli (mamme) inquisitrici. Il presidente del comitato di quartiere si appoggia al potenziale rischio di distrazione degli automobilisti in un incrocio gia pericoloso senza che lo studioapertista di turno (mai sazio di immagini di tette e culi, dopo quelle di cuccioli buffi o eroici) si metta pure a guardare l'intimo di una soubrette. Mi chiedo: se ci fosse stato un Raul Bova? Perché non hanno mai additato il sempiterno cartellone di Beckham/Ronaldo in piazzale Loreto? Mutandati e ricchi di particolari potenzialmente dannosi per la concentrazione di donne (mogli, mamme) al volante e per l'innocente e ingenua integrità delle loro figlie? 

Ricapitoliamo?

I bambini subiscono la visione di immagini pubblicitarie che possono turbare il corretto sviluppo dell'immaginazione e dei valori profondi sulla consapevolezza e sul valore del corpo, il proprio e l'altrui. 
Il livello di attenzione al volante è basso, basta poco - come la pubblicità di biancheria intima (cosa mai vista prima di adesso) - perché l'automobilista perda il controllo della vettura.
Quando si avvicinano le feste natalizie in cui si celebra la venuta di loro signore sarebbe appropriato utilizzare immagini più consone. 

Tra l'indice e l'anulare c'è di mezzo un mare. Di medî. 

lunedì 29 ottobre 2012

una tesi come un'altra

In teoria il Sistema, inteso come insieme incrementale di intelligenze individualmente situate e collettivamente indirizzate al raggiungimento dell'obiettivo di autoperpetrazione del Sistema che creano, dovrebbe essere più intelligente della somma delle intelligenze.

Invece sembra che qualcosa, nell'algoritmo dell'interazione, si perda, come si disperde il calore in una qualche reazione chimicofisica.

In particolare il Sistema perde la componente della razionalità quotidiana, della strada, del mediocre certo, ma senza superare il mediocre, bensì scendendo di livello, vale a dire di capacità di comprensione della vita nelle sue fenomenologie più immediate.

Ne consegue che, invece di dare risposte a questioni sull'azione dell'esistenza, la complica, rendendosi facile bersaglio di una serrata critica da parte degli attori/componenti, spesso nei termini del comune "com'è che non ci pensano?".

Il Sistema è più stupido. Fa propria la psicopatologia della massa senza occuparsi della saggezza della folla.

Il problema è che una volta creato, il Sistema condiziona modi d'agire e di pensare di chi nel Sistema si colloca. Crea una mentalità di Sistema che si concretizza nelle scelte quotidiane d'azione e di pensiero.

E un Sistema che si dimostra ignorante genera interazioni ignoranti, vuote. Violenta le esistenze, generando violenza, rabbia. E stanchezza.

Il Sistema è un concetto stanco, come i bambini che piangono perché hanno sonno.

martedì 12 giugno 2012

domande senza risposta fanno il discorso nojoso / discriminazione e appartenenza

Spiegami un po': se io vedo una persona e ha un atteggiamento che mi dà fastidio, perché se io penso "frocio di merda" sono tacciato di omofobia o comunque si ritiene che il mio sia un pensiero discriminatorio, ma se lo pensi o lo dici tu, no?
[amico, eterosessuale]


Già, dov'è la differenza? C'è una differenza fra l'agire (che è dire) di una persona che si situa all'interno della discorsività di un'identità collettiva (1)  e quello di un esterno? Vale ancora il discorso della minoranza e dell'appartenenza che legittima l'adozione del repertorio di senso del discriminatore? 


Massimi sistemi, minimi concetti
All'interno di una realtà complessa, le componenti, seppure accomunate dall'appartenenza a una stessa categoria di definizione-pensiero, possono entrare in conflitto e confronto; può generarsi una dinamica di norma fra gruppi espressivi: l'apparente frammentarietà del panorama interno è la regola di ogni sistema complesso. I gay non sono tutti uguali, è una proposizione sempre vera. 

L'azione sessuale, diceva già Mieli nei suoi Elementi, non è un'azione identitaria in sé. L'unica cosa che ci accomuna è l'orientamento del desiderio. Lo stesso che accomuna gli eterosessuali. Per il resto, la declinazione individuale della pratica quotidiana del desiderio fa sì che gay sia solo una macro del pensiero-per-categorie e che l'individualità si preservi di fronte alla categorizzazione (generalizzazione) da parte dell'Altro. 
Di per sé ogni atto linguistico racchiude un giudizio sull'oggetto che lo riceve. L'azione comunicativa volontaria presuppone un'intenzione nella rappresentazione di quell'oggetto. Frocio di merda è quindi il risultato di una scelta linguistica fondata su: il giudizio che si ha del soggetto destinatario; il repertorio legittimato per la definizione del soggetto destinatario del messaggio; il repertorio legittimato per l'espressione dello stato d'animo nella situazione; la legittimazione sociale all'uso di un repertorio invece di un altro; la legittimazione alla reazione. Solo per citarne alcuni. Riassumendo: un archivio di espressioni riconosciute come appropriate per esprimere una reazione di disapprovazione di fronte alla presenza di un'identità che disapproviamo. La disapprovazione è precedente all'incontro con l'Altro, è interiorizzata, è attivazione di un dispositivo culturale che si chiama, nello specifico, omofobia (2)

Minimi sistemi, massimi concetti
Tra di noi ci si appella anche con termini mutuati dal linguaggio discriminatorio e rielaborati o riempiti di un senso comodo: checca, frocia, cula, sfranta. Spesso ci si dice: «A me non piacciono per niente le checche» «Sei una frocia» «Guarda che sfranta» «Non fare la checca isterica». E anche frocia di merda
Cosa c'è di diverso? La differenza è forse nell'intenzione (comunicativa)? O nell'appartenenza? La differenza è nella consapevolezza del portato di quell'espressione, consapevolezza che ci offre la possibilità di svuotarla della sua valenza discriminatoria per relegarla nel semplice reame della volgarità? 
La differenza è che il mio amico ha pensato a frocio di merda perché è l'essere frocio l'oggetto del contendere comunicativo? Pare che lui avesse riconosciuto nell'Altro un atteggiamento. E io chiamerei frocio di merda qualcuno perché è una persona di merda che riconosco come frocioL'appartenenza alla stessa identità collettiva garantisce la condivisione di un registro linguistico altrimenti discriminatorio? 








(1) Ogni identità collettiva genera un discorso, mette cioè in atto una serie di pratiche linguistiche e comunicative, quindi espressive, dell'identità stessa. È un repertorio si attiva in performance che si concretizzano nell'adozione di un determinato stile, sia questo di pensiero (come può esserlo un gergo o un certo consumo letterario, artistico) o di presenza (ad esempio l'abbigliamento, i luoghi frequentati) e che rendono coloro che appartengono al discorso dell'identità in questione riconoscibili a loro stessi, agli altri "membri" della comunità virtualmente definita e a coloro che non assumono parte nella performance di senso - riconoscimento che può essere conscio o meno. 
(2) L'idea del dispositivo culturale, come lo definisce Pedote nella sua Storia dell'omofobia, è molto vicina a quella del repertorio per la performance: richiede sempre un'attivazione. 

giovedì 22 marzo 2012

l'appiattimento dell'orso

La comunità bear, all'interno del mondo gay, è sempre stato il rifugio di chi, non aderendo al canone della macchietta dell'omosessuale maschio, orientato al modello femmineo del magrodefinitoglabropassivo, si riconosceva in un ideale di comportamento in cui la mascolinità - nei suoi tratti socialmente e culturalmente delineati - non veniva negata, bensì messa al primo posto rispetto all'orientamento sessuale, che diveniva così una semplice espressione del desiderio. In particolare, nella comunità ursina il predominio della definizione era fisico e in contrasto con gli stereotipo della bellezza omosessuale: corporatura robusta se non morbida o addirittura sovrappeso; pelo sapientemente antiestetico secondo il canone, compreso quello (strano dirlo adesso) sulla faccia: barba, baffo. In generale un ideale di morbidezza e rilassatezza fisica in contrasto con il rigore dei definiti modelli efebici. Un uomo assolutamente normale, quasi anonimo, e come tale vario. Bearwww.com, uno dei principali luoghi di incontro virtuale per la bear community, offre una descrizione delle diverse tipologie di ursini, anche se su Wikipedia ce n'è una più esauriente. Sovrapponiamole 

Bear/Orso: uomo peloso, dalla corporatura robusta (musclebear se definito e/o palestrato) o corpulento, dall'aspetto mascolino, koala se biondo;
Cub/Cucciolo: orso giovane o dall'aspetto giovanile, (non sempre) meno corpulento di un orso;
Chubby/Orsone: uomo grosso non molto peloso, semplificando "ciccione";
Daddy(bear): orso maturo dall'aspetto rassicurante e paterno, in particolare silver daddy se ha il pelo grigio;
Chaser/Cacciatore: uomo non definibile come orso, ma attratto dalle quattro categorie precedenti, spesso sovrapponibile all'admirer, uomo (grosso o magro) cui piacciono gli uomini pelosi, e all'otter/lontra, uomo molto peloso, in genere con barba e pizzetto, solitamente non sovrappeso.

È indubbio che una tale organizzazione per categorie sia il risultato di un tentativo subculturale di diffondere in ampi strati della popolazione gay di un ideale di bellezza vicino all'uomo della strada, lontano dalla passerella dello stereotipo. 

Nata negli anni '80, la cultura ursina si è quindi diffusa velocemente, dapprima negli Stati Uniti, un decennio dopo dalle nostre parti. 

Ma come tutto quello che prende piede, presto fa moda. Su tutti i visi appaiono perfette sculture di pelo, il capello corto la fa da padrone. Soprattutto, le caratteristiche fisiche si declinano per età. La vecchia guardia mantiene la posizione bear, chubby, daddy, portando con disinvoltura una forma fisica già sedimentata nel tempo; la nuova generazione fa propri alcuni dettami dell'accettazione sociale, orientandosi al modello del musclebear e dando vita a quello che potrei chiamare musclecub; e se l'orso fa tendenza, tutti sono lontre che cacciano gli orsi che ammirano. 

Quello che era la ricchezza della comunità ursina: la varietà e l'accoglienza di ogni negazione del magro depilato muscoloso; la lotta per la morbidezza contro la dura dogmatica dell'estetica contemporanea; tutto questo si appiattisce così su tre, se non addirittura due grandi classi: grassi e magri, accomunati solo dall'amore per la genuinità del pelo. 

Forse il processo naturale di assimilazione di un prodotto culturale: la sua scomparsa, la sua dissoluzione.



giovedì 13 ottobre 2011

il trogolo


Leggo su Metro di Milano, stamattina, una lettera di un lettore: 

Cari Fabiano e Giancarlo, ho due figlie e vi posso assicurare che l'atto del loro concepimento è quanto di più benevolo la natura possa aver concesso agli uomini (ma voi non potete capire). Non è senz'altro stata benevola con voi gay in quanto vi ha instillato nel cervello i desideri assurdi che violano le sue stesse leggi più elementari.

Come possiamo pretendere che la nostra società sia civile, se è popolata di persone che, appena si accenna a una qualche modalità di adozione per le coppie omosessuali, salta così sul trogolo della giustificazione in base alle leggi di natura? Parlo di trogolo, perché questo genere di argomentazione è qualcosa cui tutti i porci (mentali) attingono appena possibile.
E ancora, altra lettera: 

Nel diritto, oltre che nel buon senso, vige un principio: ognuno può esercitare un diritto fintanto che non leda quello altrui. (...) Pertanto, per me, nulla in contrario se a una coppia di omosessuali vengono concessi diritti legali e patrimoniali di una coppia tradizionale, ma non ammetto che gli venga concesso un bambino (almeno finché non raggiunga l'età del libero arbitrio) in quanto anche lui ha il diritto ad avere un padre e una madre come tutti. Non mi si venga a dire che si conosce una coppia gay più affettuosa di una di divorziati, perché qui si parla di principi generali e non di casi soggettivi. 

Non sembra esserci uscita dall'utilizzare sempre le stesse argomentazioni. Ma il diritto ad avere un padre e una madre come tutti, non è disatteso già quando manchi una delle due figure? E non si tratta di un generale diritto alla genitorialità? Perché se parliamo di principi generali, è negata la possibilità che una coppia di omosessuali generi più affetto di una di divorziati? Piuttosto si difende la famiglia distrutta, pur di non riconoscere la dignità dell'affetto a famiglie altre

Complimenti, porci. E buon appetito. 




mercoledì 28 luglio 2010

sociologia dell'ombrellone

Il copione è sempre quello, è uno script. Scendi in spiaggia, dopo 11 mesi di urbanità pura, la quale ti appartiene come ti appartengono le cose che ti caratterizzano, e ti rivolgono la stessa, notevole, affermazione barra esclamazione: Sei bianchissimo! Grazie, non lo avevo notato, o nemmeno immaginato. Un'affermazione che racchiude un giudizio sul valore dell'abbronzatura, e sul legame indissolubile fra vacanza e cambiamento della propria pigmentazione. Non sia mai che uno vada al mare e torni com'era prima. Non rientra nelle regole del saper vivere. Ovvero, se non ti abbronzi, sei uno sfigato. Se ti scotti al sole, oltre ad essere sfigato, sei pure tonto. Non c'è protezione, o intenzione dichiarata di proteggersi che tenga, tutti sanno cosa è meglio per te, bianco urbano che tu, la vita di qua, te la sogni. Tutto ciò mi ricorda un lieto esame di sociologia del turismo che ripercorreva la storia del mutamento del concetto di tempo libero, dal puro tempo del non-lavoro al tempo della vacanza. E mi ricordo che una volta avere la pelle abbronzata era qualcosa che ti faceva facilmente additare come villano, quello che si abbronza perché lavora i campi sotto il sole cocente. L'urbano si manteneva al riparo da siffatto oltraggio attraverso graziosi ombrellini di pizzo e le fronde degli alberi nei parchi cittadini. Poi il sole iniziò a fare bene, e il colore poté significare salute. In seguito l'abbronzatura divenne il marchio stagionale distintivo della borghesia che poteva permettersi di andare a prendere il sole un tot all'anno, in residenze estive in località di mare e, perché no?, di montagna. Cambiare aria un po' di tempo durante l'anno divenne un attributo di status. Del villano conserviamo pochi reperti, spesso conosciuti come tipi da spiaggia, ma questa è un'altra storia. Così, accanto al ma sei bianchissimo, troviamo spesso, al ritorno dal periodo di natazione, il ma sei andato in spiaggia? Non ti sei abbronzato per niente. Questo presuppone che tutti gli individui del mondo possano abbronzarsi solo stando spaparanzati alla luce del giorno. O che lo desiderino. Per non parlare, in mezzo al periodo, di richieste di informazioni del tipo: ma stai andando in spiaggia? Quasi a controllare che il modello di vacanza sia rispettato. Non è contemplato che qualcuno si rechi, nello specifico, in una località di mare, e se ne voglia, che ne so, stare a casa a leggere o a scrivere, o a non fare nient'altro che rilassarsi come meglio preferisce. No. La forza del modello di comportamento sovrasta le preferenze individuali. Sei qui e non vai nemmeno in spiaggia, ti incalzano. A questo punto facevi prima a non venire. O tutto o niente. Sei bianchissimo. E? 

lunedì 28 giugno 2010

La mia generazione senza vento

Siamo una generazione? Una generazione si definisce in base alla visione del mondo che la accomuna, indipendentemente che i soggetti la condividano o la contrastino. La generazione non è solo un elemento genealogicamente fondato, ha a che fare con i cambiamenti che l'individuo vive durante la sua crescita, con le tappe della storia del mondo attraverso cui passa, che le viva in prima persona o che solo sia sfiorato dai suoi effetti. Appartengono a generazioni differenti quelli che hanno una certa età in un certo momento storico, perché le opportunità di vita e pensiero che si possono cogliere, coltivare, seguire, sono diversamente distribuite lungo il cammino della collettività. In altre parole, ogni generazione si muove sullo sfondo di un sistema complesso di valori dominanti, opportunità di scelta individuale e collettiva – in un certo senso, politica – e ancora opzioni morali, atteggiamenti verso la realtà e pensieri su come la stessa funzioni, interpretazioni che si formano tramite la visione della vicenda collettiva e l'intersecarsi inevitabile di questa con la vicenda individuale; il tutto sistema collocato nello spazio e nel tempo. La generazione è come una comunità debole di pensiero, una mentalità che l'individuo assorbe e che reitera, riproduce nel resto della propria esistenza, utilizzandola come filtro.
Che generazione siamo noi, quelli che sono nati in Italia dopo il piombo e prima del crollo del muro di Berlino, nella prima metà dei rampanti Ottanta? Che mentalità generazionale abbiamo, conserviamo, e quasi senza saperlo utilizziamo quotidianamente nella ricerca dei modi di raggiungimento dei nostri obiettivi?
Partiamo dagli esempi. Siamo quelli per cui la tecnologia è ancora una conquista, per noi è importante il contenuto che creiamo attraverso il mezzo tecnologico, mezzo che vogliamo saper controllare, il cui utilizzo ci deve essere chiaro: siamo nati prima che il mondo si interconnettesse rendendo accessibile a tutti il mercato dell'informazione. Per noi il cellulare è qualcosa che abbiamo dovuto apprendere, così come internet: nulla ci era dato per garantito, era nostro dovere prendere coscienza della portata di una trasformazione tecnologica, della modalità opportuna di utilizzarlo. Quella che potrei chiamare la generazione del muro aveva la caratteristica di non essere collocata, nella fase di crescita e passaggio alla tarda infanzia (secondo Mannheim il momento più significativo nella formazione di una mentalità generazionale), in una società del benessere diffuso, bensì in un sistema in cui l'accesso al benessere dipendeva dall'azione individuale in concerto con le circostanze politiche e sociali dell'intorno. Tutto era ancora una conquista. Siamo anche la generazione Chernobyl, i bambini che da piccoli non potevano bere il latte con tutta tranquillità, e questo – in qualche maniera – contribuì a creare un certo sentimento di responsabilità individuale e collettiva nei confronti del destino del mondo. Per lo stesso motivo, ci venne detto, e seguimmo la direttiva, che era importante studiare (una costante nella storia dell'educazione familiare italiana), e studiavamo perché pensavamo che questo ci avrebbe dato accesso alle opportunità del futuro. Durante gli anni Novanta eravamo nelle nostre scuole superiori e ricevevamo un'educazione pressoché completa, i programmi erano densi e, chi più chi meno, ci davano la confidenza necessaria ad affrontare il nuovo Anno Mille della Civiltà. Il sistema educativo ci invogliava a seguire il cammino dello studente anche al livello universitario, ancora genitori e professori erano alleati nello spronarci, in senso quasi hegeliano, a buttarci nella società civile extra moenia. Tirando delle somme parziali, si formava la nostramentalità generazionale e i primi capisaldi erano: che le cose bisogna conquistarle e sapere come funzionano; che ci sono azioni i cui effetti travalicano i confini del piccolo mondo individuale e che per gestire tutto questo è necessario essere preparati, da grandi.
Studiammo, ci preparammo, ci credemmo, ma poi qualcosa è cambiato, ora siamo una generazione che non ha le opportunità su cui pensava di contare, una generazione il cui valore e la cui formazione – gli anni dedicati a conquistare una propria identità culturale e intellettuale – sono quotidianamente misconosciuti o addirittura disconosciuti. Ci viene detto che siamo troppo preparati, troppo formati, per ambire a delle semplici occupazioni. Ci viene detto che, per tutelare la nostra grande formazione, non possono impiegarci in un'attività. Ci viene rinfacciato il fatto che pretendiamo. La nostra mentalità generazionale viene utilizzata contro di noi, come se fossimo colpevoli di aver seguito le aspirazioni che coltivammo nei campi della Storia, nei solchi che l'aratro delle nostre storie individuali avevano creato. Dovevamo essere la generazione che avrebbe soppiantato ilrampantismo eighties degli eterni Peter Pan usciti da un'infanzia segnata dal piombo e dalla strage delle idee dei Settanta. Potevamo essere coloro che avrebbero accolto la generazione del benessere, quelli che avrebbero vissuto il mondo dopo la fine dei muri, e che poi si sono beccati la società globale della paura, con i suoi 11 settembre e tutto il conseguente. Invece gli ex-rampanti ce li ritroviamo di fronte a non-selezionarci per un lavoro, e lagenerazione 11 settembre mette video su Youtube e, volenti o nolenti, si stanno crescendo da soli.
Non siamo collocabili, nello spazio. Quindi esistiamo solo come tempo, e come tempo passiamo.  
Grazie.
Gianmarco

anche qui

mercoledì 9 giugno 2010

la cenere che resta ad ogni passo


Non sono collocabile. Ho un curriculum che non ha alcun interesse. Mi chiedo come sia possibile, dopo tutti gli invii, i contatti, le ricerche, che qualcuno non abbia visto il mio listino e abbia anche solo pensato: «Toh, ma sai che ci serve proprio uno che abbia studiato questo, e che abbia fatto questo?». Così mi ritrovo a pensare di tornare al duemileddue, all'uscita dall'orale di maturità, e decidere altro, un altro cammino, qualcosa che col tempo non si rivelasse la via più difficile, qualcosa che segua i gusti e le sovrastrutture di questo mondo di ingegneri che fanno i sociologi dell'ambiente, di avvocati che fanno i sociologi della devianza, di medici che fanno i sociologi della salute, di economisti che fanno i sociologi del lavoro e via dicendo. Che poi, non c'è reciprocità: il sociologo non può fare l'ingegnere o l'architetto, il medico o l'avvocato. Viene da dire: mi rubano il lavoro. Vorrei lavorare in qualcosa che abbia a che fare con quello per cui mi sono martirizzato su righe e righe di pagine e pagine in libri su libri. Non voglio che qualcuno mi dia l'elemosina di un lavoro da commesso - non ho forse il diritto di pretendere? Credo di sì. Ma ho scelto, quell'anno lontano, di essere un professionista la cui professionalità non è riconosciuta, a meno che sia anche un po' conosciuta. O meglio, è riconosciuta solo se si mantiene all'interno di un rispettoso ambito universitario, ossia se regala altri anni della propria giovane vita ad un ciclo di dottorato, tanto per dire. Ma la libertà è anche quella di scegliere di non darsi più allo studio. Ho una laurea specialistica, un master, delle esperienze (formative, quasi lavorative), tutte cose che possono essere valutate. Come mi dovrei comportare di fronte ad un selezionatore di lavoro di agenzia di somministrazione che mi chiede se, nel caso, sarei disponibile per lavoretti saltuari in qualche negozio come addetto alle vendite? Perché sai, attualmente non ci sono offerte. In che campi vorresti lavorare? La progettazione, l'organizzazione, la valutazione, cose che fanno i sociologi. Mi viene detto di provare a contattare le ONLUS, sai mai. Che l'unica cosa è stare tutto il giorno a cercare offerte, contattare, mandare curricula. Grazie. Il lavoro di cercare lavoro vale come stage nell'ambito risorse umane? In quel caso, saremmo una generazione con molta esperienza. I cinque minuti più inutili della mia vita.