Spiegami un po': se io vedo una persona e ha un atteggiamento che mi dà fastidio, perché se io penso "frocio di merda" sono tacciato di omofobia o comunque si ritiene che il mio sia un pensiero discriminatorio, ma se lo pensi o lo dici tu, no?
[amico, eterosessuale]
Già, dov'è la differenza? C'è una differenza fra l'agire (che è dire) di una persona che si situa all'interno della discorsività di un'identità collettiva (1) e quello di un esterno? Vale ancora il discorso della minoranza e dell'appartenenza che legittima l'adozione del repertorio di senso del discriminatore?
L'azione sessuale, diceva già Mieli nei suoi Elementi, non è un'azione identitaria in sé. L'unica cosa che ci accomuna è l'orientamento del desiderio. Lo stesso che accomuna gli eterosessuali. Per il resto, la declinazione individuale della pratica quotidiana del desiderio fa sì che gay sia solo una macro del pensiero-per-categorie e che l'individualità si preservi di fronte alla categorizzazione (generalizzazione) da parte dell'Altro.
Di per sé ogni atto linguistico racchiude un giudizio sull'oggetto che lo riceve. L'azione comunicativa volontaria presuppone un'intenzione nella rappresentazione di quell'oggetto. Frocio di merda è quindi il risultato di una scelta linguistica fondata su: il giudizio che si ha del soggetto destinatario; il repertorio legittimato per la definizione del soggetto destinatario del messaggio; il repertorio legittimato per l'espressione dello stato d'animo nella situazione; la legittimazione sociale all'uso di un repertorio invece di un altro; la legittimazione alla reazione. Solo per citarne alcuni. Riassumendo: un archivio di espressioni riconosciute come appropriate per esprimere una reazione di disapprovazione di fronte alla presenza di un'identità che disapproviamo. La disapprovazione è precedente all'incontro con l'Altro, è interiorizzata, è attivazione di un dispositivo culturale che si chiama, nello specifico, omofobia (2).
Minimi sistemi, massimi concetti
Tra di noi ci si appella anche con termini mutuati dal linguaggio discriminatorio e rielaborati o riempiti di un senso comodo: checca, frocia, cula, sfranta. Spesso ci si dice: «A me non piacciono per niente le checche» «Sei una frocia» «Guarda che sfranta» «Non fare la checca isterica». E anche frocia di merda.
Cosa c'è di diverso? La differenza è forse nell'intenzione (comunicativa)? O nell'appartenenza? La differenza è nella consapevolezza del portato di quell'espressione, consapevolezza che ci offre la possibilità di svuotarla della sua valenza discriminatoria per relegarla nel semplice reame della volgarità?
La differenza è che il mio amico ha pensato a frocio di merda perché è l'essere frocio l'oggetto del contendere comunicativo? Pare che lui avesse riconosciuto nell'Altro un atteggiamento. E io chiamerei frocio di merda qualcuno perché è una persona di merda che riconosco come frocio? L'appartenenza alla stessa identità collettiva garantisce la condivisione di un registro linguistico altrimenti discriminatorio?
(1) Ogni identità collettiva genera un discorso, mette cioè in atto una serie di pratiche linguistiche e comunicative, quindi espressive, dell'identità stessa. È un repertorio si attiva in performance che si concretizzano nell'adozione di un determinato stile, sia questo di pensiero (come può esserlo un gergo o un certo consumo letterario, artistico) o di presenza (ad esempio l'abbigliamento, i luoghi frequentati) e che rendono coloro che appartengono al discorso dell'identità in questione riconoscibili a loro stessi, agli altri "membri" della comunità virtualmente definita e a coloro che non assumono parte nella performance di senso - riconoscimento che può essere conscio o meno.
(2) L'idea del dispositivo culturale, come lo definisce Pedote nella sua Storia dell'omofobia, è molto vicina a quella del repertorio per la performance: richiede sempre un'attivazione.
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