sabato 30 aprile 2011

davvero davvero

Era la fine dell'inverno, per tutti la primavera inizia ai primi di marzo, anche quando la pioggia e il freddo ci legano ai mesi del freddo profondo. Ma c'era un po' di primavera, comunque, come nell'aria. Non si capisce, te la senti, non si sa, succede. 
Quando lo incontrai, non faceva molto freddo, nelle rispettive giacche. Si stava bene, protetti dalle facciate dei palazzi. Andammo a bere una birra, e con una intendo una, ché la condividemmo, in un piccolo posto, molto intimo. Noi due al tavolo, qualcun altro al bancone, i genius loci. Parlammo. Quell'incontro arrivava dopo un po' di chiacchiere la sera precedente, in chat. Mi contattò, gli risposi, ci scambiammo un contatto più fluido, finimmo a vederci, una webcam e due stanze si uniscono in un unico locale. Non si capisce, non si sa, succede. Ci si trova, si parla, ride, si va, ci si incontra. 
E si era seduti a un piccolo tavolo, un bicchiere di birra e quattro mani che si sfioravano, i volti che si avvicinavano. Ci baciammo poco dopo. Iniziò così, una birra in due. Ci spostammo verso il vino, e bevemmo vino, senza smettere di baciarci, di toccarci, di mapparci. Parlare. La bocca può fare molte cose, contemporaneamente. Assiduamente. 
Avevo paura, era troppo bello e non sentivo nessuna forzatura, sembrava tutto così naturale. Succede. 
Avevo paura anche quando ci trovammo a casa sua, ma bastarono pochi minuti perché mi rendessi conto che non c'era niente di più naturale, di più tranquillo e di più, forse, giusto. Arrivò il suo coinquilino e non fu nulla di inopportuno. Era solo vita, quotidiana e semplice. Poi la porta si chiuse, o si spense solo la luce, questo non lo ricordo, ricordo solo gli abbracci. E «resta a dormire», un invito. Non era ancora il momento, volevo che le cose andassero diversamente, era successo troppe volte, il giorno dopo se ne erano sempre andati. Io me ne sarei andato? Tornai a casa, tardi. 
Un paio di giorni dopo, successe di nuovo. Uscimmo e poi ci ritrovammo sul suo letto. «Resta a dormire», di nuovo. Quanto mi costò declinare, ma c'era qualcosa che non mi permetteva di accettare. Per questo il giorno dopo dissi ai miei genitori dove ero stato quelle sere, il perché di quelle ore piccole. Finì lì, non ci fu niente di speciale. La sera stessa uscimmo con i suoi amici, divenni il suo ragazzo; non sentii nessuna forzatura, nessun "è troppo presto, è troppo presto". Non si capisce, ma succede. Stavamo bene, punto. 
Quella notte dormii da lui, per la prima volta. Ci spogliammo e cademmo abbracciati. Io non avevo mai dormito... io non ero mai riuscito a dormire tutta la notte abbracciato a qualcuno, ho sempre difeso il mio spazio, il mio calore, me stesso, forse solo la mia comodità. Ci svegliammo così, abbracciati, ed era domenica. Poi ci fu un'altra settimana, il tempo insieme. Le mutande di ricambio, la cena. Stavamo bene, punto. Non si sa come, ma succede. Questo basta.
Tornava piano il sole, quei giorni. Si avvicinava l'equinozio. O il solstizio, non ho mai capito, so solo che succede ogni tanto, ogni tot. Tornava il sabato, lo passammo insieme, il pomeriggio. «Ti amo», disse, «Ti amo veramente», ripeté guardandomi negli occhi.
I piani di un'uscita svanirono sotto la grandine improvvisa. Malumore, capita. A lui piace il sole, questa è una cosa che ho saputo, che conosco. Rimanemmo a casa a farci compagnia, bastavano le nostre reciproche presenze. A lui questo piace, basta. Anche a me, ma non sono riuscito a farglielo sapere. Capire? 
Forse volevo farlo uscire, portarlo fuori, farlo più felice, fargli conoscere le cose di me. Non ne aveva bisogno quanto me. Ma ne avevo bisogno per lui, non per me. Questo non successe.  

- Buio - 

«Forse è meglio se non ci vediamo per qualche giorno».
«Non mi perdi, deve passarmi da solo». 
Provai a cercarlo, si negò per due settimane, a parte un breve incontro in cui pensai di perderlo. 
«Non mi perdi, deve solo passarmi». 
Rispettai le sue richieste, mi pesava ma rimasi ad attendere, dimostrandogli la mia presenza. Non mi avrebbe perso, non mi sarei perso. 
Provai a cercarlo, si negò ancora. Le nostre presenze erano chiare, eravamo nello stesso luogo nello stesso momento, connessi solo da un debole segnale di rete. Ma non lo cercai più, lui non cercò mai me. 
Gli scrissi le ultime parole, perché volevo farlo. Forse perché lo vidi dove ci eravamo incontrati. Prima della birra. Prima della webcam.
Gli scrissi le ultime parole, perché non ne avevo altre. Erano domande. 

- Buio - 

Passarono settimane, nessuna risposta. E lo vedevo in giro per la rete. E mi vedeva. Mi vedeva? 

- Buio -  

Mi misi a riascoltare quella canzone, Talk To Me, adoro quella canzone. Me la inviò, tre settimane dopo le mie ultime parole. Non capii, non trovai nessun senso. Pensai al titolo. Pensai volesse che gli parlassi. Pensai al testo, perché non mi parli? Mi chiesi cosa volesse dire. Che cosa volesse. Voleva che gli parlassi? Voleva parlarmi? Qualunque cosa volesse dire, gli rimandai il suo stesso messaggio: erano esattamente le domande o i desideri che io rivolgevo a lui, che avevo rivolto a lui in quel tempo.  
Pensai che forse era pronto, di nuovo. 
Provai a chiamarlo. Suonava libero. 

- Buio - 

Non rispose. 

- Buio - 

Non richiamò.

- Buio - 

Non si capisce. 
Non ho più parole per provare a capire. Quanto spazio c'è per l'orgoglio? 
Pensavo fosse pronto. Pensavo di essere pronto. Ero pronto. 
Non si capisce.
Non si capisce.

- Buio - 


«Talk to me sticazzi. Ma io, secondo te, cos'altro dovrei dirti? Se vuoi parlare, di modi ne hai.
Io problemi non ne ho. Sei tu quello che non risponde. E ti ho già scritto troppo.» Gli scrissi. 
Non rispose. 
Mi tolse dal suo mondo virtuale. L'unica cosa che riuscì a fare, rimuovi dagli amici
Che smacco, davvero.
Davvero davvero.

- Fine - 

giovedì 21 aprile 2011

venerdì 8 aprile 2011

bisogna sempre per forza parlare d'amore?

Ci sono libri che non bisogna leggere, perché non tutti i libri sono fatti per essere letti, semmai possono essere dei letti. Alcuni libri nascono per essere consultati, sono delle enciclopedie da tirare fuori dalla libreria a bocconi, mangiucchiando le voci che più ci servono.  Sono libri utili, con un valore d’uso. In una visione archeologica, che vanta fra i suoi maggiori esponenti un certo Michel Foucault, solo per dirne uno, il valore dell’accumulazione della storia e della ricostruzione dei percorsi delle cose e delle persone è fondamentale, è il surplus di “chi ne sa”. Bene, tutto questo va molto bene. Il rischio è quello di andare troppo a fondo e svelare innumerevoli altarini arcani, liberare il mondo dal velo schopenaueriano e via dicendo; ma è un rischio che personalmente mi assumo con quieta e placida noncuranza.  Chiara la premessa, pongo una domandina facile facile, rubata ai Bluvertigo: «Bisogna sempre per forza parlare d’amore?». Perché qui si parla di ricostruire l’amore, ma non quel romanticismo spicciolo da bacio perugina, bensì un romanticismo diverso, quello fatto di figure e azioni e una intensissima vita mentale che il Roland Barthes dei Frammenti di un discorso amoroso (1977) ha sapientemente ricostruito.
Roland è un archeologo della vita. Scava a mani nude e spennella via la polvere e le incrostazioni, recupera i reperti nascosti sotto gli strati, li sottopone a datazione al carbonio-14 e li scopre sempiterni, e ne fa bella mostra, un’installazione permanente di scatti, di figure, appunto, svelandoci da buon strutturalista la struttura delle relazioni fra chi ama e chi è amato.
Consultiamo una voce a caso, davvero a caso, e troviamo «Così non può continuare». Per come è organizzato il tutto, si parte con la definizione tecnica della figura «Insopportabile: la coscienza di un accumulo delle sofferenze amorose trova sfogo con questa frase: “Così non può continuare”». E poi via di ricostruzione meticolosa della struttura di quest’azione, nella letteratura e nella vita quotidiana (come se, per noi, le due cose fossero sempre distinte). In tutta la sua banalità, sono due attimi di luce su verità prese per buone e agite come nulla fosse. Da verità a Verità, questo è il lavoro di Barthes: rendere eterno ed etereo lo sporco della vita quotidiana. Fare dello sporco un concetto iperuranico, platonico. Arrogarsi, forse, la capacità di assolutizzare e fare impalpabile il fisico. Ricchezza e limite della sua avventura fra i tempi del romantico, il risultato di questa operazione è squisitamente detestabile, perché al termine di ogni voce, o dell’intera lettura, non si può fare a meno che pensare di essere innamorati di tutti, di essere sempre e costantemente in balia di un folgorante innamoramento. Ecco perché non è un libro che va letto, in particolare non lo legga chi ha anche solo un misero minuscolo infinitesimale dubbio sulla possibilità di esserci cascato. Ogni frammento è pietra, saggiamente estorta dagli scavi della storia della letteratura, del pensiero, ma lasciata ruvida, grezza, con tutto il suo potenziale di deflagrazione.
Il romanticismo che ne esce non è un romanticismo per sé, in sé, immanente, ma un romanticismo performativo, fatto di situazioni definite romantiche da chi le costruisce e le struttura. Un romanticismo materico, quotidiano, attuale.
«Bisogna sempre per forza parlare d’amore», allora? Rispondete consultando «Io-ti-amo». Che figura!